Per chi (come la sottoscritta) ha una vera, profonda, carnale passione per il vecchio west, Godless – racconto di un cowboy in fuga da una cricca di efferati banditi che si rifugia in una piccola comunità del New Mexico abitata perlopiù da donne – è una visione quasi inderogabile.

Prodotta e distribuita da Netflix, la miniserie ideata da Steven Soderbergh e Scott Frank è un articolato e atipico western che si spalma in sette episodi dalla durata variabile – si va dai 70 minuti del pilot, passando per i 40 di alcuni episodi, fino agli 80 minuti per il finale di stagione. A tale incostanza di minutaggio, cui fa eco anche una certa discontinuità di ritmi e motivi (che sembrano cambiare per ogni storyline collaterale consumata perlopiù nell’arco di una puntata), si apprezza la generale coerenza di stile, garantita dall’ottimo lavoro di Scott Frank, regista di tutti gli episodi. Rispetto alla scrittura si apprezzano soprattutto alcune scelte, come quella di adottare una sceneggiatura dal taglio cinematografico opportunamente dilatata. Non spezzano perciò l’incantesimo epico i ruffiani cliffhanger o i costrutti narrativi tipicamente seriali – come le interruzioni strategiche in cui una situazione può riprendere solo dopo una scena dislocata altrove.

La regia segue le stesse direttive concedendosi magnifiche e lunghissime sequenze (che difficilmente si apprezzano all’interno di prodotti televisivi) caratterizzate da momenti di pura contemplazione paesaggistica (campi lunghi e lunghissimi), riprese flemmatiche e fluttuanti sulla realtà rurale (la doma dei cavalli e le scene di caccia) e puntuali giochi di sguardi, tópoi di un genere che fa piacere ritrovare nel pieno della sua forza espressiva – se c’è un regista che non abbandona il grande cinema neanche quando si dedica al piccolo schermo, questo è proprio Soderbergh.

A svecchiare (come dire) il classico formulario tematico e culturale intervengono alcune originali soluzioni. Sul piano della sceneggiatura e della regia si opta per un recupero del passato attraverso l’uso di flashback piazzati ad hoc caratterizzati da un saturo bianco e nero e viraggi monocromatici. La trovata, per quanto utile e necessaria (onde non caricare ulteriormente una narrazione già abbastanza corposa), appare un po’ stonata, specialmente all’interno di un racconto che è completamente privo di frizioni. Sul piano della narrazione, invece, si apprezzano le variazioni a carico dei ruoli, giustificate da credibili ed efficaci turning plot – l’emancipazione femminile ante litteram dovuta alla morte di tutti gli uomini di La Belle; l’integrazione degli indiani attraverso il matrimonio misto; il bipolarismo spirituale del bandito (predicatore) e la riabilitazione emotiva dell’eroe (ex villain).

Il cuore narrativo di Godless, la peculiare vicenda che interessa i tre personaggi chiave – della miniserie e del western tout court – ossia il cowboy Roy Goode (Jack O’Connell), lo sceriffo Bill McNue (Scoot McNairy) e il bandito Frank Griffin (Jeff Daniels), sembra regolare la vita degli abitanti di La Belle e dintorni, come se da quello scontro tra titani dipendesse interamente il destino di quei luoghi. Con il procedere della storia, ciò che appare chiaro, è che le esistenze raccontate, con i loro pesanti fardelli di stravolgimenti, dolori e delusioni, potranno ottenere una nuova ragione di vita – la nascita del sogno americano – solo alla dissoluzione della tradizione, la fine del mito e delle sue vecchie illusioni.



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