È giunta al termine, con il rilascio degli ultimi due episodi di dieci sulla piattaforma Netflix, la prima stagione di Snowpiercer (Greame Manson, 2020-), la serie tv tratta dalla graphic novel Le Transperceneige (Jacques Lob e Jean-Marc Rochette, 1982), a partire dalla quale nel 2013 era già stato realizzato l’omonimo lungometraggio di successo diretto da Bong Joon-ho.
La serie, mantenendo una coerenza narrativa con l’opera matrice, sembra staccarsi in maniera netta dal film del regista coreano, non solo per ragioni formali, di linguaggio specifico – la serialità televisiva contro l’unicum cinematografico, che naturalmente perseguono soluzioni evocative differenti – bensì per i diversi e intrinseci scopi narrativi. Mentre il film di Bong, allestito com’era sulla ricostruzione maniacale di temi e ideali, che il treno confezionava e rifletteva in ogni sua parte e personaggio assurgendo a luogo puramente simbolico, la serie preferisce muoversi su binari differenti, riconsegnando al treno il ruolo di mero mezzo di trasporto, un conduttore (perpetuo) di esistenze e storie – cronologicamente la serie è ambientata otto anni prima del film e sette dopo la glaciazione terrestre.
Va da sé che se nella pellicola una poca credibilità restava a favor di metafora, giustificando così ogni sospensione e sproporzione fantastica, nella serie lo sviluppo storico finisce per subire una battuta d’arresto ad ogni gap narrativo ed estetico, pagando in termini di plausibilità. Quelle che nel film sono di fatto licenze poetiche, qui diventano banalmente buchi logici, debolezze strutturali, cadute di stile. Se a ciò si aggiunge il fatto che il plot risulta poco coeso e definito, con una prima parte interessata a costruire una detective story con una grande – ma fiacca e squilibrata – attenzione riservata alla coralità e al mistero da risolvere (i buoni e i cattivi del treno), e una seconda parte più scandita e selettiva consacrata a pochi elementi (le strategie di conquista e le pedine in campo), la serie risulta nell’insieme molto poco coinvolgente.
Messa così sembrerebbe tutto da buttare, mentre invece questo Snowpiercer dimostra di avere del potenziale – per ora quasi completamente inespresso – che potrebbe invero regalarci una seconda stagione interessante. Accantonata, infatti, una prima parte inutile e poco appetibile, la serie pare concentrarsi sulla natura degli interessi di pochi, personaggi in grado di gestire gli spazi e i tempi del “viaggio” in maniera originale e scompaginante, restituendo di ogni singolo percorso emotivo ragioni e speranze singolari, una soluzione che permette di abbandonare le rigide e manichee condizioni iniziali.
I cattivi e i buoni divengono via via sempre più sfaccettati, assumendo maggior tridimensionalità – progressi imprescindibili se il core della narrazione sono e restano i soggetti umani alle prese con l’istinto di sopravvivenza e all’autoaffermazione. I rapporti (familiari, di genere, di classe), pur nella loro carenza descrittiva, rappresentano infatti il pezzo forte della narrazione di Snowpiercer, e se l’inadeguatezza interpretativa di alcuni attori (Andre Leyton/ Daveed Diggs su tutti) rema un po’ contro a questa appena abbozzata ma sicuramente vincente coazione all’analisi e all’autoanalisi psicologica – che smorza l’azione ma promette una narrazione squisitamente shakespeariana – è pur vero che l’abilità di altri (Melanie Cavill/Jennifer Connelly è a dir poco formidabile) garantisce allo show un appeal da non sottovalutare.
Staremo a vedere…
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