Il viaggio di Sound of Metal è iniziato un anno e mezzo fa con la première al Festival di Toronto 2019. Dalla Award Season appena conclusa il film è uscito con – fra gli altri – due Oscar e due BAFTA per suono e montaggio.

Difficile però immaginarne il successo senza una prova come quella del suo protagonista. Candidato all’Oscar, al BAFTA, allo Screen Actors Guild Awards e al Golden Globe (ma la lista è lunga) e premiato dal National Board of Review come miglior attore, Riz Ahmed riempie la pellicola con una prova di profondità dirompente. Trasformandosi in cassa di risonanza di un conflitto interiore che rimbomba come le note aggressive del metal.

Ahmed è Ruben, batterista del duo che forma con la compagna Lou (Olivia Cooke). Vive con lei in camper, spostandosi per suonare: l’abitudine alle sonorità assordati sembra aver efficacemente sostituito quella all’eroina.  Il mondo che conosce crolla quando, improvvisamente, una severa perdita dell’udito ne blocca la vita professionale e non solo. La speranza di tornare alla musica è appesa al filo di un costosissimo intervento per l’applicazione di un impianto cocleare, dispositivo che trasforma i suoni in segnali elettrici e li invia al nervo acustico.

Sound of Metal

Come gestire, però, le nuove urgenze e i problemi della routine in attesa di capire come pagare l’operazione? Ruben accetta di trasferirsi temporaneamente nella comunità che fa capo a Joe (Paul Raci), veterano del Vietnam che insegna – anche – a vivere senza considerare la sordità un handicap.

La dicotomia tra rumore e silenzio emerge con impattante verismo dal lavoro del team da Oscar responsabile del sonoro di Sound of Metal: Nicolas Becker, Jaime Baksht, Michelle Couttolenc, Carlos Cortés e Phillip Bladh.

L’immersione nel dramma di Ruben diventa quasi totalizzante nel far vivere anche allo spettatore l’assenza di suono, ovattata e vagamente ronzante. La vicinanza al protagonista diventa così ancora più completa, evitando a Darius Marder (regista e co-sceneggiatore) sforzi dolciastri per far amare un protagonista che rimane sempre autentico.

Riz Ahmed sceglie infatti il non eccesso, una sofferenza che diventa sorda anch’essa, che non esplode. L’aver imparato a suonare la batteria e ad esprimersi con il linguaggio dei segni diventano i plus di una prova ancora più personale.

sound of metal

Il film, così, raggiunge la sua sintesi più equilibrata quando mostra l’adattarsi di Ruben alla sua nuova condizione e alle regole di vita della sordità. Il momento più alto di Sound of Metal è probabilmente il dialogo senza parole con un bambino su uno scivolo percosso come una batteria, ma con le mani: le vibrazioni arrivano al cervello e al cuore di entrambi.

È un peccato che, quando il protagonista sente il richiamo della vita che ha lasciato e dell’amore e si sottopone all’intervento, la pellicola sembri affrettarsi a giudicarlo. Deve lasciare la comunità immediatamente: la brutalità della norma – verbale e mai fisica – gli impedisce di trattenersi anche solo per il tempo necessario a riorganizzarsi, ora che ha venduto il camper per pagarsi l’operazione. Ma, soprattutto, la sceneggiatura sembra rigettarlo in un mondo che non conosce. Quello di Anversa, dove Lou è tornata per ritrovare se stessa a casa del padre (Mathieu Amalric) guarendo dall’abitudine di graffiarsi fino a ferirsi le braccia, e soprattutto quello dei suoni, che l’impianto non riproduce come aveva sperato: sono metallici, distorti.

Meglio il silenzio? La domanda sembra cadere con un’amarezza che, pur più consapevole, fa pendant con quella che serpeggia nell’incipit, ancor prima che Ruben perda l’udito.



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