le notti selvagge

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Le notti selvagge — Cyril Collard

Anabasi; traduzione di Marina Bianchi.


Nel novembre del 2020 ho letto La città dei vivi di Nicola Lagioia, incuriosita dall’ottima accoglienza ricevuta da uno dei titoli più apprezzati dell’ultima stagione. La mia reazione è stata più tiepida: a una riuscita evocazione degli ambienti nei quali è maturato il delitto Varani non corrisponde un’indagine altrettanto minuziosa intorno a ciò che rappresentava uno dei nodi cruciali della vicenda, vale a dire la sessualità maschile nei suoi grovigli umani e nelle sue implicazioni sociali — uno squilibrio senz’altro dovuto anche a complicazioni non aggirabili, non ultima l’impossibilità di un confronto diretto con tutte le persone coinvolte. 

Da lì dev’essere nata la spinta a leggere Le notti selvagge, il romanzo da cui era stato tratto un film che mi aveva molto impressionato quando l’avevo visto per la prima volta, più di dodici anni fa; Cyril Collard, l’autore del libro, è anche regista e attore protagonista della pellicola.
Le due opere, a dire il vero, hanno poco in comune, tuttavia, dove la non fiction italiana si mantiene in superficie (insistendo su almeno una scelta stilistica incomprensibile, ovvero le sezioni dedicate al pedofilo olandese), il romanzo francese taglia in profondità, anticipando in parte esplorazioni letterarie della sessualità come Cioccolata calda di Rachid O. (Playground, traduzione di Matteo Colombo), Scopami di Virginie Despentes (Fandango, traduzione di Silvia Marzocchi) e La vita sessuale di Catherine M. di Catherine Millet (Mondadori, traduzione di Monica Capuani), per arrivare al presente di Édouard Louis ed Emma Becker.

Le notti selvagge esce nel settembre del 1989, una data autunnale che sottolinea quanto la casa editrice Flammarion puntasse sul romanzo (l’esordio di Collard, Condamné amour, era arrivato due anni prima a febbraio, un periodo meno propizio); poche settimane dopo lo scrittore risponde alle domande di Thierry Ardisson durante la trasmissione Lunettes noires pour nuits blanches, trasmessa in seconda serata sulla tv pubblica nazionale, e afferma di essere sieropositivo e bisessuale, due caratteristiche che condivide con il suo protagonista e che, nonostante la sua provenienza borghese e una ben avviata carriera in campo cinematografico/televisivo, lo situano ai margini della società francese nel crepuscolo degli anni Ottanta.

Le notti selvagge di solito viene considerato uno degli esempi transalpini di letteratura e cinema dell’AIDS, accanto a opere come All’amico che non mi ha salvato la vita di Hervé Guibert (Guanda, traduzione di Monica Martinat) e Once More – Ancora di Paul Vecchiali, ma la lettura del romanzo apre un panorama più vasto che non si riduce alla malattia. Quindi, cosa trova chi lo legge?

Nel 1989, Cyril Collard può vantare un solido percorso nel cinema: nato nel 1957, prima di compiere trent’anni è già stato assistente di registi di primo piano come Maurice Pialat, René Allio e Frédéric Rossif, ha diretto dei videoclip e alcuni corti, uno dei quali, Alger la blanche, è stato candidato al César per miglior cortometraggio di finzione nel 1987. Il protagonista (anonimo nel romanzo, nel film verrà chiamato Jean, stratagemma che adotterò anch’io per evitare confusione) è un coetaneo dell’autore e la sua vita professionale si muove su binari simili, ma più sobri: lavora soprattutto come capo-operatore e sceneggiatore.

La trasmutazione della materia vivente in materia letteraria segue una traiettoria analoga ed è possibile riconoscere in filigrana eventi e persone della vita dell’autore. Per esempio, il film che Jean sceneggia con l’amico Omar, all’inizio della narrazione, sembra riecheggiare in parte la trama di Alger la blanche; allo stesso modo, il ritratto ammirativo del regista Louis P. ricorda le parole dedicate a Maurice Pialat in un pezzo scritto da Collard pochi anni prima per Libération.
Parigi, 1985. Jean incontra durante un casting la figura femminile principale: Laura, molto giovane (compirà diciotto anni poco dopo), impulsiva e con una personalità non facile. È a lei che viene associato per la prima volta il termine chiave del romanzo, fauve, nella sua accezione di “fulvo”.

Fauves, cioè selvagge, sono le notti del titolo, che Jean cerca in un anelito masochistico di purificazione dopo la conferma della propria sieropositività:

Periodicamente, a notte fonda, andavo verso un luogo santo avido di martiri. Era una vasta galleria sorretta da pilastri di cemento a sezione quadrata costeggiante la Senna, sulla riva sinistra, tra il ponte di Bercy e quello di Austerlitz. Come nella caverna di Platone, la luce non veniva percepita che di riflesso e gli esseri dalle loro ombre. Cercavo uomini viziosi, sessi duri, gesti umilianti, odori forti. Taluni corpi esitavano, giravano qua e là, si parlavano; a me era necessaria l’immediatezza. Dichiaravo i miei gusti: se era no, respingevo l’altro con un gesto brutale della mano; se era sì, lo seguivo al lato opposto del ponte dove urlavo il mio piacere sui gradini di una scala di ferro. Insudiciato, martirizzato, dopo l’orgasmo in riva al fiume stavo bene; fluido e limpido. Trasparente.

Il terzo significato di fauve rimanda ancora a Laura e ai due ragazzi che si affiancheranno a lei nel corso dell’arduo cammino che porterà Jean all’accettazione della malattia: Samy e Jamel.

Samy era un animale selvaggio. […] Non pensavo però alle grandi belve, le fiere maestose, le slanciate; i miei animali sono selvaggi piccoli, solidi, muscolosi, appoggiati contro un muro, una gamba ripiegata, il piede a piatto contro il cemento, la testa un poco girata, lievemente abbassata, fissa, lo sguardo rivolto in alto. Le ragazze, più rare, non stanno ferme. Si allontanano da me, s’immobilizzano nel loro andare, voltano la testa, se ne coglie lo sguardo attraverso i riccioli dei capelli in movimento. La violenza dei miei selvaggi è contenuta, chiusa, ravvolta, convulsa, ripiegata su se stessa. Essa è la loro criniera: là dove si può posare la guancia, là dove, inoltre, s’intuisce la loro forza.

Il legame con Laura, che innerva l’intero romanzo, è così tormentato da risultare a tratti noioso nella sezione centrale: separati da una differenza d’età di dieci anni, lei e il protagonista dimostrano invece una simile capacità manipolatoria e un certo gusto per i grandi gesti superficiali. Laura è anche l’unica persona che Jean espone (per fortuna senza conseguenze) al contagio. Frastornato da uno smarrimento tale da renderlo incapace di dire o fare qualcosa, lui vorrebbe, paradossalmente, che la ragazza riuscisse a capire l’intera situazione senza bisogno di parlarne.

Nella relazione con Samy, Jean fa la figura più patetica: mentre Laura e Jamel provano sentimenti genuini, Samy sembra vedere tutto in maniera più mercenaria e, senza mai arrivare a uno stretto do ut des, nel corso del romanzo il suo ascendente su Jean è abbastanza forte da permettergli di cambiare mestiere e di trasferirsi nel suo appartamento. Ciononostante, questo è forse il rapporto più leggero e non manca di qualche intermezzo comico, come l’episodio della ragazza svizzera.

Jamel, che arriva per ultimo, per certi versi sembra sintetizzare il trasporto fisico che Jean prova per Laura con quello emotivo che gli ispira Samy, anche se la loro storia sarà effimera: coinvolto in uno scontro con degli skinhead, Jamel verrà rimpatriato in Algeria, nonostante sia nato e cresciuto in Francia.

Nel frattempo, l’evoluzione del virus nel corpo di Jean forma una sorta di calendario, che seguiamo passo passo: il test diagnostico, la comparsa dei segni del sarcoma di Kaposi, i frequenti esami del sangue e infine la prescrizione del farmaco AZT. L’HIV, oltre a essere uno sconvolgimento esistenziale, esaspera l’irrequietudine da cui il protagonista si è sempre sentito abitato e che attribuisce al segno zodiacale che condivide con un’altra figura peripatetica e trasgressiva che ne influenza l’opera: come Jean Genet, anche Cyril Collard e la sua creatura sono nati il 19 dicembre, sotto il segno del mobile Sagittario.

Solo alla fine del romanzo, durante un viaggio di lavoro in Portogallo, Jean riuscirà a superare l’angoscia di vivere e a raggiungere una consapevolezza lucida di sé. Sono le pagine più belle.
In aggiunta alla malattia e alla sessualità, anche il tema dell’asimmetria relazionale ha un peso ne Le notti selvagge: il paradigma descritto da Collard nella maggior parte dei casi è composto da una metà maschile di origini maghrebine, intorno ai vent’anni e di estrazione sociale umile, e da una metà maschile o femminile francese, bianca, di età e condizione sociale più elevate. Considerate una per una, non si tratta di situazioni di abuso, eppure è difficile non rilevare lo sguardo che i personaggi bianchi rivolgono all’Altro povero, razzializzato, più giovane. Indicativa, tra le varie, la scena in cui l’ex compagna di Samy racconta al protagonista che il ragazzo non ha alcuna ascendenza nordafricana:

Samy dorme di rado nell’appartamento. Mi dà appuntamenti ai quali non viene. Telefono a Marianne. Rincasa da lei, ma, certe sere, neppure lei sa dov’è. La nostra rivalità è da tempo scomparsa; lei mi parla della sua vita, vorrebbe che il suo giornale le lasciasse un po’ di tempo libero per scrivere il romanzo che ha iniziato. Dico: “Samy è molto cambiato”, e lei: “Sfugge anche a me.” Le dico che ad Abidjan lavorava male, che ha la mente altrove: “Ho tentato di parlargli ma non serve a nulla. Di contro ho finito per sapere da lui che suo padre era un algerino reclutato nell’esercito francese.” Lo scoppio in risa di Marianne mi lascia interdetto: “Ma che frottole racconta? Suo padre è spagnolo, come sua madre! È astuto questo piccolo minchione, sapeva che un padre arabo ti avrebbe solleticato. E un militare per giunta, tanto per calarti addosso una cattiva coscienza in cemento armato!”

Oltre ad approfittare dell’inconscio feticismo di Jean nei confronti dei giovani maghrebini, la bugia di Samy sfrutta anche la sua coscienza politica: la traduzione italiana usa la perifrasi “un algerino reclutato nell’esercito francese” per l’originale harki, che si riferisce agli algerini inquadrati nell’esercito francese durante la guerra d’indipendenza che l’Algeria combatté contro la Francia dal 1954 al 1962; alla fine del conflitto, nell’Algeria indipendente, gli harki, invisi ai connazionali per la loro lealtà al dominatore coloniale, subirono violenze e massacri. L’indifferente Francia gollista accettò di ospitarne solo circa ventimila, un quinto del loro numero. 

Anche la violenza razzista dell’estrema destra assume un’importanza crescente nel corso del romanzo; Samy e Jamel, con effetti opposti, ne saranno toccati.

Cyril Collard a 25 anni è Jean-Pierre in Ai nostri amori (1983) di Maurice Pialat,
del quale era anche assistente alla regia

Esplicito nelle descrizioni sessuali e opera di un giovane autore capace di affascinare, Le notti selvagge ottiene un successo di pubblico abbastanza eclatante da essere adattato sul grande schermo, con Collard nel ruolo di regista e di interprete principale, decisione non tanto dettata dal narcisismo quanto dalla difficoltà di ingaggiare un attore disponibile a interpretare Jean. Il film ha un grande riscontro in sala e, nel marzo del 1993, si aggiudica quattro Césars, tra cui quello per il miglior film. Collard non partecipa alla cerimonia: è mancato tre giorni prima, a soli trentacinque anni, partecipando al destino di una generazione.

Nello stesso anno, a novembre, muore per complicazioni legate all’AIDS anche una ventiseienne di nome Erica Prou. Qualche mese dopo, la politica e intellettuale Françoise Giroud e la scrittrice Suzanne Prou, nonna di Erica, preoccupate dalla “romanticizzazione” della malattia da parte di Collard, rivelano che la giovane donna era stata contagiata proprio da Cyril Collard nel corso di una breve relazione avvenuta nel 1984. La madre di Erica dichiara di essere grata a Giroud per aver reso pubblici i fatti, sebbene lei stessa avesse giurato alla propria figlia di mantenere il segreto. I genitori di Collard, che passeranno a vie legali, ricordano che i primi test per accertare una possibile sieropositività erano stati messi a punto in Francia solo nel 1985, mesi dopo la relazione tra i due. 

L’abbiamo visto anche con l’attuale pandemia: cercare un colpevole per additarlo come capro espiatorio sembra essere un primordiale istinto umano, che si tratti di Giangiacomo Mora ai tempi della peste di Milano o di Gaëtan Dugas per l’HIV. Cyril Collard, a dispetto dell’entusiasmo suscitato in vita, sembra essere stato la vittima di un meccanismo analogo, i cui ingranaggi fobici — motivati dall’intolleranza nei confronti di chi non si allinea ai canoni di una società eteronormata e dal terrore di una malattia con esiti allora spesso tragici — si sono messi in moto nonostante l’esplicita richiesta di Erica Prou, l’unica persona che avrebbe avuto la piena legittimità di parlare. Con le terapie disponibili oggi, Prou e Collard vivrebbero e non dovrebbero subire ingerenze esterne.

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