L’aspetto immediatamente curioso di The Meyerowits Stories (2017), il nuovo film di Noah Baumbach presentato in anteprima al Festival di Cannes e distribuito sulla piattaforma Netflix, risiede nella particolare resa estetica (se così si può dire) “telecinematografica” – migliore di quella televisiva, senz’altro meno lineare, statica e bidimensionale, e leggermente inferiore a quella cinematografica, meno curata sui piani della fotografia e del montaggio e, in generale, meno impattante.

Tutto sembrerebbe dipendere da un’insolita messinscena che, diversamente dagli approcci più tradizionali e ormai invisibili, impiega per la costruzione dello spazio, dei rapporti tra personaggi e dell’osservazione del/i protagonista/i, una limitata e diversa gamma di inquadrature che, principalmente, sembrano situarsi tra il piano americano – largamente impiegato da Woody Allen per mantenere la giusta distanza tra personaggio e spettatore affinché l’identificazione non sia mai totalmente raggiunta – e il primo piano – in cui l’affezione è invece assoluta. Baumbach resta dalle parti del piano medio, più utilizzato nel cinema europeo che in quello statunitense, risicando tantissimo sui piani ravvicinati, e lo fa sia per regolare la comprimarietà dei tre fratelli newyorkesi protagonisti (Adam Sandler, Ben Stiller e Elizabeth Marvel), sia per garantirsi un’identificazione dello spettatore labile e a tratti “autistica”, che ricorda più i costrutti sintattici di un Wes Anderson – i Meyerowits sembrano dei Tenenbaum più stronzi che strani – che quelli di un Woody Allen (anche se il primo sfrutta più che altro la centralità, l’ortogonalità e lo sguardo in macchina per ottenere i suoi effetti stranianti).

Baumbach, invece, si accosta e discosta dalle stories dei Meyerowitz in maniera tangenziale, quasi casuale – l’uso del dialogo tranciato risponde anche a questa esigenza descrittiva – tenendosene a debita distanza e scrutandone le vite da prospettive insolite. L’effetto ottico è lo stesso recepito quando si sbaglia formato sul televisore e i bordi laterali dell’immagine sono mozzati, i corpi appaiono invadenti ma non centrati e il focus dell’inquadratura sembra incerto. Ed è proprio l’incertezza a dominare nelle dinamiche intrapersonali e interpersonali del film. Che cosa provino o che cosa desiderino i personaggi non è mai chiaro, ma nel film di Baumbach in cui tutto è, al contrario, voluto e attentamene approntato, quella confusione finisce per interessare gli stessi che sembrano procedere senza rotta sicura, senza sapere cosa ci sia ai bordi del campo (la gag della corsa di Stiller per recuperare il cappotto, in questo senso, è esemplare).

E’ questo, forse, l’aspetto più originale e interessante di The Meyerowits Stories che, nel raccontare le vicende di una famiglia ebrea con tanti ignorati problemi, finisce per spiegare perfettamente perché alle peggiori incomprensioni non ci sia rimedio ma generico sfinimento, rinuncia e afflizione. Non solo non è chiaro chi sia o chi non sia l’artista tra i Meyerowitz (al di là del fatto che si sia affermato o meno), ma anche chi sia il frustrato o chi si sia realizzato, chi sia fuggito o si sia sacrificato, chi sia stato d’ispirazione o chi abbia rappresentato solo un intralcio. Un’equa distanza – di macchina e di empatia – dalle cose e dai personaggi non risolve mai l’enigma, ed è un bene perché a dover scegliere il vincitore e le vittorie ci si dimentica subito di coloro che, invece, hanno perso qualcosa, molto oppure tutto!



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