Sono tanti i progetti a cui sta lavorando Netflix per farci sedere in cerchio, ordinati, composti, senza emettere suoni, davanti a uno schermo luminoso.
Aspetta, rifaccio.
Siamo a metà 2016 e cosa hai fatto quest’anno, ti sei indignato e poi hai rigurgitato rabbia e c’erano “i politici” ed erano “tutti ladri” e hai votato e ti sei pentito e hai contato gli attacchi terroristici, solo attacchi terroristici, ogni giorno attacchi terroristici e prima di dormire hai chiuso gli occhi riflettendo sul fatto che 10.000 like hanno lo stesso valore sia per un musulmano che per un cristiano e quindi per la prima volta l’umanità ha creato un dio indiscutibile e inequivocabile, questo dio è il web, la rete, una massa ascesa a entità, in grado di giudicare gli esseri umani come nessun altro ha fatto prima, e chi ha una mente turbata farà qualunque cosa per averne l’approvazione e allora c’è che uccide su Periscope e chi si ammazza su Snapchat e questa sindrome di Stoccolma è stata il tuo anno, è il tuo mondo, questa è la tua vita, queste sono le tue idee, questo è il tuo presente e questo è ciò che hai seminato per chi verrà dopo di te.
Aspetta, rifaccio. Trattieni il fiato che scendiamo più giù.
Siamo a metà 2016 e la fine ormai è alle porte, allora cerchi conforto nel veganesimo e nei libri di auto-aiuto e nelle offerte da MediaWorld e intanto speri che qualche nuova serie tv ti faccia il regalo più bello che potresti ricevere anche quest’anno: per qualche ora, non essere te.
È un meccanismo che ormai si ripropone sempre più di frequente, sempre identico a se stesso. Le serie Netflix vengono messe in streaming con tutte le puntate assieme per ipnotizzare quelli come noi, una generazione di uomini cresciuti da donne, e farci sedere in cerchio, ordinati, composti, senza emettere suoni, davanti a uno schermo luminoso.
Fino a qui come ti sembra?
Pesante?
Stai ancora leggendo?
Mi è parso doveroso spendere due parole sulla tua vita in generale, giacché oggi ci troviamo a parlare della terza stagione di BoJack Horseman, regalataci da Netflix pochi giorni fa.
Per chi non lo sapesse, o avesse dimenticato, BoJack Horseman è una serie animata per adulti incentrata su un attore di Hollywood depresso e alcolizzato e quell’attore è un cavallo antropomorfo – ma in realtà, non prendiamoci in giro, sei tu.
Perché se è vero che nella versione di Netflix BoJack sta inseguendo l’Oscar, nella vita reale tu stai inseguendo la risoluzione di rapporti familiari degradati, o una maggiore autostima, o magari una relazione romantica, o forse un lavoro migliore – oppure, che ne so io, stai inseguendo proprio l’Oscar – ma il percorso è grosso modo lo stesso: solitudine, umiliazioni, incomprensioni e sporadici episodi di stitichezza.
Sul personaggio, a parte quel che ti dicevo sopra, direi che tutto sommato il lavoro fatto in questa terza stagione è ancora più sperimentale, con un quarto episodio che potrebbe tranquillamente essere la roba migliore che quest’anno ti capiterà di vedere in TV. Per me è stato folgorante. Uno schiaffo sulla nuca di quelli che senti il sapore di sangue in fondo al palato.
La trama principale – quella della rincorsa all’Oscar – a un certo punto la metti in secondo piano come interesse in favore della crescita interiore di BoJack. Non è noia, non è distrazione, non è un caso – succede perché si vuol far funzionare le serie puntando sull’elemento umano, sull’immedesimazione dello spettatore. Ormai siamo abituati a cartoni animati (per adulti) i cui protagonisti sono diventati sempre più macchiettistici. BoJack invece è vero, è umano (è un cavallo), un personaggio sofferente ma al contempo mai patetico, duro senza voler fare il duro e a volte è anche ironico. Forse un lavoro simile era all’origine di South Park, ma poi si è preferito farne una serie a incastro con questa satira pazzesca che, non so come spiegarlo, a volte toglie respiro alla narrazione.
Alla fine hai un contesto ricco, dove anche quello che rimane sullo sfondo, o le storie che vanno sottotraccia, non ti sembrano mai sottosviluppate o scadenti, hai sempre questa percezione di funzionamento del tutto, senza distogliere mai lo sguardo dall’evoluzione del personaggio in primo piano. Merito anche delle qualità recitative di Will Arnett, Amy Sedaris, Alison Brie e Aaron Paul (voci nella versione in lingua originale).
Quello che mi fa strano è che debba essere una sit-com animata incentrata su un cavallo parlante a sporcarsi le mani per smitizzare argomenti attorno ai quali c’è ancora tanta, troppa confusione. BoJack Horseman è, a conti fatti, l’analisi più intelligente e toccante mai vista in TV su cosa voglia dire vivere con la depressione. Questa cosa non è mai cambiata, fin dalla prima stagione.
Poi, come dicevo all’inizio, siamo già a metà 2016 e non è più così divertente mettersi a fare progetti per il futuro, è più facile spararsi 8 ore di Stranger Things senza farsi una doccia. Ma almeno BoJack Horseman prende uno specchio grosso come una casa e te lo sbatte in faccia, costringendoti a guardarti dritto negli occhi e a fare due conti prima che sia troppo tardi. Come a dire, occhio.
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