Proletkult si presenta sugli scaffali così: una fascetta rossa recita un motto semplice ma efficace, in copertina campeggia un’immagine accattivante – anche se stilisticamente rivedibile – e a precederlo ritroviamo tutte le aspettative che accompagnano ogni nuovo romanzo dei Wu Ming. Aspettative che, duole ammetterlo, sono state in parte deluse. Intendiamoci, Proletkult non è brutto, i Wu Ming non hanno perso il tocco e, forse, quando un’opera disattende le aspettative del lettore, la colpa è soprattutto del lettore. Fatto sta che, per quanto mi sforzi, non riesco a giudicarlo come un lavoro pienamente riuscito.

Prima di tutto, mi preme fare una precisazione. Ho letto – non ricordo dove, probabilmente su un forum – che Proletkult segnerebbe l’esordio del collettivo bolognese nel genere della fantascienza classica. Ebbene, questo semplicemente non è vero. In Proletkult, il fantascientifico viene sfiorato, alluso, viene prima evocato e poi rigettato con un’alternanza di aperture possibiliste e rinculi di realismo. L’idea che qualcosa di effettivamente straordinario sia accaduto – o stia accadendo – viene stuzzicata e immediatamente dopo smorzata dalla concomitanza di altri fattori come stati allucinatori, esperienze pre-morte o una più che legittima fuga dalla realtà; cose che portano il lettore a domandarsi “è successo davvero o se lo sono immaginato?”. Si tratta di un tropo ricorrente nei loro scritti, quasi un marchio di fabbrica, dove si suggerisce che il magico, il fantastico – e quindi il fantascientifico – esiste, è in mezzo a noi, e sta alla nostra disposizione d’animo (o culturale) riuscire a scorgerlo. È una cosa che adoro, ma credo che possa ricondursi più ad un approccio postmoderno alla fantascienza, che all’adesione ad un fantomatico filone classico della fantascienza (qualunque cosa significhi).

È pur vero comunque che la fantascienza rivesta un ruolo centrale del romanzo. Aleksandr Bogdanov, il protagonista della storia, è, tra le tante cose, l’autore di Stella Rossa, romanzo che racconta il viaggio di Leonid Voloch, militante del partito operaio socialdemocratico, sul pianeta Marte, dove il socialismo è istituzionalizzato ormai da secoli. Gli autori mettono in atto un’operazione che ha molto a che fare col fandom letterario, ossia approcciarsi a un’opera con lo scopo di reinterpretarla, espanderla e allo stesso tempo omaggiarla. Marte dunque diventa Nacun, viene spinto fuori dal sistema solare, l’utopia extraterrestre mostra qualche incrinatura ed è lì lì per trasformarsi in distopia. In ogni caso, Nacun rimane un modello ideale al quale comparare lo stato delle cose in Russia dopo la rivoluzione d’ottobre, oltre ad essere la risposta alla domanda “si può abitare una filosofia?”.

Il giochino è sempre il solito: sgretolare il limite tra reale e irreale e, in quest’ottica, Stella Rossa potrebbe benissimo diventare un libro di scienza (politica-economica-sociale) – e non più di fantascienza – se solo esistesse almeno una prova della sua esistenza. Ma, a quanto pare, su Nacun qualcuno sembra esserci andato davvero, o almeno così dice: ci è andato Leonid Voloch, amico e allievo di Bogdanov, che col suo racconto ha ispirato Stella Rossa prima di sparire nel nulla; ci è nata Denni, che dice di essere la figlia di Voloch e di essere fuggita da un orfanotrofio di Baku per mettersi sulle sue tracce.

La ricerca dello scomparso Voloch è il McGuffin che dà il via a un viaggio nello spazio – la città di Mosca – e nel tempo – quello di un uomo che ha visto due rivoluzioni, che ha visto concretizzarsi un sogno di giustizia ed egualità, del quale è stato prima un riferimento e poi un rinnegato. Il ritratto di Bogdanov è senza dubbio l’aspetto più riuscito del romanzo. Di Aleksandr Aleksandrovic Malinovskij, in arte Bogdanov, si sa innanzi tutto che ha avuto molti altri nomi e che, oltre ad essere stato uno scrittore di successo, è stato anche filosofo, teorico, medico. La sua era una teoria del collettivismo e dell’organizzazione, attraverso la quale esaminare la natura nelle sue varie forme, dall’ematologia all’organizzazione strutturale di una nazione. La Tectologia – che, come la tettonica delle placche, deriva dal greco tektonikòs ‘che concerne l’arte del costruire’ – trova il massimo compimento nel Proletkul’t, organismo da lui stesso fondato con l’obiettivo di formare una base culturale e artistica del tutto nuova ed emancipata dalle asfittiche formalità della borghesia.

Ma Bogdanov è stato soprattutto uno sconfitto. Un uomo che non ha temuto di sfidare il satrapismo di Lenin e di pagarne le conseguenze. Densa di significato, in questo senso, è una scena che lo vede sfidare a scacchi il padre della rivoluzione russa. La vicenda prende spunto da una fotografia scattata a Capri dove i rivoluzionari si erano trasferiti per fondare la prima scuola del partito. Bogdanov non vince: domina. La sua visione globale, la sua abilità strategica, la sua intelligenza prevaricano quella dell’avversario, a dimostrazione di una capacità di analisi più complessa, persino di un modo di sognare più raffinato. In quel gioco così carico di simbolismo si affrontano non solo due amici/avversari, ma due filosofie, due visioni della rivoluzione. Solo che, finché il campo rimane quello astratto della scacchiera, gli ideali possono tradursi in una loro realizzazione completa e autentica senza incontrare gli ostacoli dei sotterfugi, dei tradimenti, degli interessi personali (in breve: della politica, nella sua accezione peggiore). Quando il campo da gioco diventa quello concreto della Russia post-zarista, sono gli ideali di un politico come Lenin a trovare la loro realizzazione e agli uomini come Bogdanov non resta che osservare con malinconia e disinteresse la deriva autoritaria imboccata dal suo paese.

Ancora una volta i Wu Ming danno un saggio della loro maestria nel creare una storia che è attendibile e allo stesso tempo incredibile. Quello che è sempre stato il loro pallino aveva trovato la sua sublimazione ne L’Invisibile Ovunque, dove i fatti inventati contribuivano assieme a quelli reali a creare una verità perfettamente credibile. In Proletkult proseguono sulla stessa strada dove da un lato troviamo il “reale”, documentato e testimoniato, e dall’altro il romanzato, la fiction, l’arte dei cantastorie. Il potenziale di questa scrittura sta tutto nel riuscire a trasportare il lettore all’interno di episodi che sono accaduti realmente, ma che per diverse ragioni sono scivolati ai margini della memoria storica, come la suddetta scena della partita a scacchi, – che, come apprendiamo dai titoli di coda, non è andata esattamente così. Eppure i fatti si incastrano talmente bene nella narrazione, e sono così rappresentativi dei personaggi, che, dopotutto, non è detto che non possa essere andata davvero così –e, in ogni caso, non è così importante.

A non funzionare stavolta è, detto molto semplicemente, la scrittura. C’è una sensazione che associo automaticamente alla lettura di un libro dei Wu Ming ed è lo spaesamento delle prime 10/20 ore di Morrowind (dovete perdonarmi, ma sono pur sempre un [ex]videogiocatore). In Morrowind, il giocatore arriva in un porto nebbioso in mezzo al nulla (la quantità di nebbia è inversamente proporzionale alla potenza della GPU), nel bel mezzo di lotte di potere che non comprende, sperduto in un territorio ostile con la capacità di sopravvivenza di una lumaca senza guscio in un contest di tip tap. Ma poi, dopo tanta fatica, si arriva a un punto dove le cose prendono a girare come devono, si trova finalmente l’orientamento e le Ashland, le lande in cui il giocatore è sbarcato, diventano familiari come le strade di casa (forse anche di più).

È più o meno questo ciò che ho vissuto in Q [miglior romanzo italiano del dopoguerra, NdClaudio] e ne L’Armata dei Sonnambuli (ma che ho ritrovato anche in questo bellissimo articolo [prima parte, seconda parte]), quando, dal caos delle prime cento/duecento pagine, gli eventi cominciano a delinearsi in una forma comprensibile e ad ordinarsi in traiettorie intelligibili. È in quel preciso momento che si realizza la meraviglia della loro scrittura: quando il quadro completo prende la sua forma definitiva e il lettore sa esattamente dove si trova. La vita dopotutto è fatta di eventi che si presentano caotici e ci travolgono spesso senza un ordine o un motivo preciso, ed è pure vero che siamo noi ad interpretarli come un sistema di cause ed effetti.

Bisogna dire che anche Proletkult inizia con le stesse premesse, tuttavia, purtroppo, l’effetto Morrowind si esaurisce tutto nelle pagine del prologo. Da lì in avanti, la narrazione diventa subito una linea retta, dove lo l’intreccio procede avanti e indietro su una traiettoria perfettamente bidimensionale. Nulla di male in questo, non per forza bisogna mettere in piedi un labirinto tutte le volte che si vuole raccontare una storia. Ciò che trovo poco efficace qui è lo stile di prosa estremamente didascalico, dove gli eventi vengono scanditi lentamente. Il romanzo ritrova brio negli ultimi capitoli, aiutato anche dall’inerzia che prendono i fatti verso la commovente risoluzione finale, ma, nel mezzo, la lettura avanza affannosamente come su un terreno fradicio.

Non un romanzo brutto, dicevo, ma un mezzo colpo a vuoto: è come un film che parte da ottime basi di soggetto e sceneggiatura, ma dove una regia pedestre rovina il risultato complessivo. Per molti aspetti posso dirmi contento di averlo letto, cionondimeno non riesco a metterlo sullo stesso piano dei loro precedenti lavori, né lo consiglierei a chi mi chiedesse da che parte cominciare per approcciarsi alla loro bibliografia.

 



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