Mentre affettavo mongoli in quel gran capolavoro che è Ghost of Tsushima, curiosamente cazziato o comunque non sufficientemente elogiato dalla risibile critica italiana, troppo occupata a prostrarsi di fronte a titoli a gameplay zero realizzati da falsi profeti per capire quando ha sottomano un vero videogioco, mi sono reso conto che era da un bel pezzo che non interpretavo un personaggio maschile.

Normalmente non c’avrei fatto caso, ma dopo aver letto della vicenda made in Ubisoft (Serge Hascoet, chief creative officer della compagnia, si è dimesso dopo l’accusa di aver avuto comportamenti non consoni e inappropriati) mi è balenata davanti agli occhi l’affermazione del tipo secondo la quale “i videogiochi con protagoniste femminili non vendono” e mi sono chiesto se effettivamente, più o meno inconsciamente, avessi mai prestato attenzione a questo elemento in fase d’acquisto.

Così mi sono ricordato che da gennaio ho giocato “per bene” a: Control, Assassin’s Creed Odyssey, quella breve genialata di The Procession to Calvary e The Last of Us 2, tutti giochi che hanno una donna come protagonista assoluta. Tra l’altro ho scientemente scelto Kassandra in Odyssey perché il fratello Alexios mi sembrava un fesso messo lì tanto per dare al giocatore la possibilità di scegliere. E bene ho fatto! Dal punto di vista della narrazione non mi sono pentito, i dialoghi e gli snodi della storia di Kassandra mi sono sembrati molto meglio “sceneggiati” rispetto a quelli del fratello (che ho recuperato parzialmente dopo aver finito il gioco attraverso filmati su youtube) e sul fronte del gameplay non ho riscontrato particolari differenze (cosa che, a pensarci bene, non è proprio un vanto per Ubisoft…).

Un altro esempio di titolo al femminile “migliorativo” (sempre secondo il mio parere eh, sarebbe inutile scriverlo ma di questi tempi non si sa mai) rispetto alla controparte maschile è Uncharted: The Lost Legacy, da me amatissimo, sia perché adoro il franchise, sia perché, per quanto trovi spassosi gli scambi dialettici tra Nathan Drake e Victor Sullivan, quelli tra Chloe Frazer e Nadine Ross mi sono sembrati ancora più credibili e vivaci. Certo è vero che in Naughty Dog la caratterizzazione dei personaggi è tutto (ma a differenza di altri, vedi Rockstar/CD Projekt, loro sanno offrire anche del gameplay sopraffino), ma ricordo piacevolmente anche quei momenti “di pausa ludica”, durante i quali i personaggi si mettono a chiacchierare del più e del meno.

Insomma, a me personalmente di chi si interpreta in un videogioco interessa zero (e vale lo stesso anche per gli altri medium): nel corso di quarant’anni di vita ludica sono stato uomo, donna, un qualsiasi animale più o meno antropomorfo, un oggetto, uno strumento, un alieno, un robot, un’entità, davvero qualsiasi cosa, ma francamente non ho mai pensato al personaggio come una versione di me stesso nel gioco. Semmai come a un avatar di cui prendo temporaneamente i comandi. Quindi trovo un po’ curioso lamentarsi del sesso di un personaggio fatto di pixel. (Che poi, a voler azzardare un paragone, è un po’ come il razzismo negli stadi: come fai a fare buuu ad un giocatore non bianco/caucasico/etc. avversario se poi hai metà della TUA squadra che è composta proprio da non bianchi/caucasici/etc? Certo, a meno che tu non ragioni come il Pino Frangione di Do the Right Thing, secondo il quale c’erano “neri non veramente neri”…)).

Un’ultima riflessione: a parità di impegno economico, mi sembra che il medium videogioco su questo tema (la caratterizzazione dei personaggi femminili, il loro modo di rapportarsi agli altri protagonisti, il ruolo nella storia, soggetto e sceneggiatura) sia molto più avanti rispetto al cinema. I giochi citati sono, per budget, vendite e “peso specifico”, equiparabili ai blockbuster hollywoodiani che, da questo punto di vista, letteralmente impallidiscono, risultando quasi sempre incapaci sia di creare ruoli realmente significativi che di gestire un rapporto equilibrato tra donne e uomini. Quindi, in sintesi: fatemi pure interpretare chi volete, basta che i giochi sian belli.



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Andrea Chirichelli

Classe '73. Giornalista da tre anni, ha offerto il suo talento a riviste quali Wired, Metro, Capital, Traveller, Jack, Colonne Sonore, Game Republic e a decine di siti che ovviamente lo hanno evitato con anguillesca agilità. Ha in forte antipatia i fancazzisti, i politici, i medici, i giornalisti e soprattutto quelli che gli chiedono foto.

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