Le chiamano story driven adventure, walking simulator, story-heavy games, ma, messe da parte le etichette – quasi sempre imprecise e fuorvianti -, quello che resta è ciò che questi prodotti non sono: videogiochi, per esempio, ma nemmeno film, e certamente non sono romanzi. Rainswept si inserisce nello stesso filone di Going Home, What remains of Edith Finch, Firewatch e, soprattutto, Kentucky Route Zero. Si tratta di una forma di intrattenimento interattivo che prende in prestito un po’ da film e serie TV, un po’ dalla narrativa, e un po’ dalle avventure punta e clicca – dopotutto la descrizione che più calza a pennello potrebbe essere quella di puzzleless adventure. Un ibrido che scivola oltre ogni meccanica di gameplay che non sia l’esplorazione (quantunque sempre guidata dal binario narrativo), e che fa leva unicamente sul coinvolgimento emotivo ed estetico dello spettatore. Insomma, le chiamano story driven adventure per un motivo preciso: se siete alla ricerca di una sfida per le vostre abilità – qualunque esse siano – mi dispiace, ma avete sbagliato portone. 

C’è sempre un oggetto speciale sepolto tra le righe di buon giallo. Funziona un po’ come uno specchio magico dove la trama che porta alla soluzione dell’enigma si sovrappone e si intreccia con la vicenda dell’eroe. Dopotutto, è dai tempi di Edipo che un mistero non è mai soltanto un mistero: è l’innesco di un processo introspettivo, un’occasione per far riaffiorare i problemi irrisolti del passato. 

A Pineview, uno strato limaccioso fatto di violenze domestiche, sensi di colpa e infelicità, si nasconde sotto le tranquille apparenze di una cittadina costiera. Giunto in città per indagare su un delitto, il detective Stone metterà a dura prova il suo equilibrio psicoemotivo, mentre farà luce sul passato delle vittime. Con lo strumento del flashback, la scrittura rivela a mano a mano un vissuto quotidiano fatto violenze domestiche e abusi. Nel corso dell’avventura vengono toccati con garbo e senza scadere in facili luoghi comuni temi quali l’infelicità, l’isolamento sociale e il suicidio. Ma forse il pregio più grande di Rainswept è la caratterizzazione tridimensionale dei suoi personaggi (con giusto qualche eccezione), fatta di chiaroscuri e armadi che traboccano di scheletri, che restituiscono l’impressione di muoversi in una cittadina viva.

In fondo sarà pure un mondo senza gameplay, ma Pineview è un posto che riesce a conquistare lo spettatore per le circa quattro ore di durata, con le sue vie fradice d’acqua, il chiacchiericcio dei passanti, i panorami lo-fi e la musica dai toni malinconici di micAmic. Un rapimento estetico reso possibile da una grafica minimale, ma certamente elegante, quando non addirittura sorprendente nella rappresentazione di scogliere e specchi d’acqua, al punto da farsi perdonare i continui andirivieni cui si viene costretti per raggiungere i diversi luoghi di interesse. 

Se fosse un libro, direi che sotto l’ombrellone sarebbe la morte sua, ma, visto che da luglio è disponibile su Switch, torna buono il consiglio di giocarci guardarlo godervelo dove vi pare e piace.

Frostwood è ciò che si può definire un one-man studio. Quella di Armaan Sandhu è la storia di un ragazzo indiano incastrato in una vita professionale insoddisfacente, che decide di reinventarsi come sviluppatore nel mondo ultrasaturo degli indie game. Tutto è nato dalla necessità di narrare una storia e dalla frustrazione di vivere in un contesto socioculturale avverso alle sue ambizioni. Mollato il suo lavoro in uno studio di architettura, Armaan si è lanciato con tutto sé stesso nella vita da developer, non prima di aver imparato da zero i rudimenti della programmazione, del game design e del disegno digitale. 

A Rainswept farà seguito un’altra avventura dal titolo Forgotten Fields, in uscita per questo dicembre.



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