Produzione spagnola deluxe con il sigillo della distribuzione globale tramite Netflix, She Walks in Darkness (in originale Un fantasma en la batalla) è un thriller senza la violenza dei colpi di scena. Una calma stilistica apparente crea, quasi a sorpresa, una tensione più insidiosa.
La giovane poliziotta Amaia (Susana Abaitua) si infiltra nell’ETA, l’organizzazione armata terroristica nata nel ‘58 come associazione clandestina per sostenere l’indipendentismo basco, sfociata in lotta armata verso la metà degli anni Sessanta: il madrileno Agustín Díaz Yanes dirige una storia di spionaggio e scelte morali stratificando minacce e sospetti e – astutamente – privilegia il punto di vista del “topo” delle forze dell’ordine. Una protagonista sola, esposta a pressioni crescenti.
Un focus intimo che è un punto di forza: c’è un’insolita freschezza nella rivisitazione di quello che è quasi un topos narrativo, con una trama che pulsa al ritmo delle decisioni della sua protagonista. Congelando la sua identità, ma non la relazione con il fidanzato, Amaia accetta un lavoro di copertura come insegnante in una scuola di San Sebastián e diventa amica della dirigente scolastica, Begoña (Iraia Elias), che in realtà è un’importante figura dell’ETA e che inizia – qui sì con una rapidità poco realistica, probabilmente – a fidarsi di lei e a introdurla nell’organizzazione terroristica.
La trama copre dagli anni ’90 fino alla cosiddetta Operación Santuario del 2004, che assestò all’ETA uno dei colpi più duri e segnò l’inizio della sua fine. Eventi reali e fiction si intrecciano sincronizzandosi con la temperatura emotiva della protagonista: c’è ansia ma anche consapevolezza della tragedia storica. E, nonostante le manipolazioni descrittive utili a costruire un film di potenziale successo, She Walks in Darkness riesce a mettere sul tavolo dilemmi morali, solitudini e sensi di colpa sia storici sia intimi. Uno spaccato quasi crudele sulla storia recente e sulla memoria collettiva della Spagna.
A metà fra giallo politico e ritratto intimo, il film di Agustín Díaz Yanes non urla il pericolo. Il senso di incertezza è una sospensione costante, una sorta di nebbia mentale che spesso fa più paura delle armi.
Quando Amaia decide di lasciare per riprendere in mano la sua vita personale, ma sente poi il bisogno di tornare in prima linea per continuare la lotta al terrorismo basco, ci si chiede se sia impazzita: chiunque le consiglierebbe di restarne fuori. Una delle boss dell’ETA (Ariadna Gil) è più fredda e lungimirante di Begoña, che nel frattempo è finita dietro le sbarre. Capisce che c’è un infiltrato e riesuma un vecchio esperto per far chiudere il cerchio attorno a una manciata di sospettati.
Fra citazioni dotte (Amaia è un’esperta traduttrice del poeta irlandese William Butler Yeats) e canzoni italiane di Mina e Nicola Di Bari usate per comunicare in codice, il film costruisce l’angoscia nei dettagli con pause che sembrano innocue ma che segnano il passo come colpi di orologio. E riesce a farlo rendendo comprensibile un contesto complesso senza semplificarlo. Perché qui non serve conoscere nei dettagli tutta la storia dell’ETA: forse è meno nota fuori dalla Spagna, ma di sicuro ha una portata universale.
È anche la fotografia di Paco Femenia, cupa e soffocante, a restituire il clima di un Paese paralizzato dal terrore. A volte, i suoi toni ricordano quelli del cinema horror.
Ma ovviamente She Walks in Darkness non è solo un film sull’ETA o sulla solitudine di un’infiltrata: in qualche modo, è anche il racconto di come la sopraffazione si insinui nelle vite private fino a deformarle. Mette in scena la guerra invisibile della menzogna, quella che non esplode in piazza ma che corrode dall’interno. Ecco perché il vero brivido non sta nei cadaveri che non vediamo, ma nello smarrimento di Amaia – efficacemente interpretata da Susana Abaitua – costretta a camminare su un terreno dove l’identità diventa maschera e l’amicizia un’arma a doppio taglio. L’eco che si lascia dietro è amara. Non è solo la paura del terrorismo. Ma anche la certezza che, in molti conflitti, le ferite laceranti sono sia quelle inflitte dalla brutalità esterna sia quelle esistenziali, che si accumulano vivendo nascosti, costretti a recitare un ruolo fino a smarrire se stessi.
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