Non ho mai smesso di pensare al fatto che la persona più intelligente che conoscevo avesse deciso, dopo averci riflettuto a lungo, che la vita non meritava di essere vissuta – che era meglio non viverla – e come facevo ad andare avanti con un pensiero del genere?
Ai lettori più attenti non sarà sfuggito come negli ultimi anni non siano mancate storie on the road al femminile, al cinema e nelle librerie. Tra le dune infuocate dell’Australia con Robyn Davidson/Mia Wasikowska o sul sentiero delle creste del Pacifico con Cheryl Strayed/Reese Witherspoon, l’immancabile componente spirituale del viaggio nelle terre selvagge s’incarna di frequente nel corpo femminile, senza per questo perderne in profondità introspettiva.
Tocca all’esordiente Catherine Lacey portare il genere al suo limite più estremo. Un limite tutto mentale, che si consuma non in una sfida di sopravvivenza estrema ai limiti della follia (ricordate Into The Wild?), ma in una ricerca altrettanto insensata di cancellazione del sé dal mondo.
Se è vero, come declama il titolo e realizza amaramente la protagonista, che nessuno scompare davvero, non si può negare alla protagonista Elyria di averci provato con ogni mezzo.
[…] ed era questo che avevo desiderato da tanto tempo, scomparire del tutto, ma non sarei mai riuscita a scomparire del tutto: non si scompare in quel modo, è un lusso che non è mai stato concesso e nessuno potrà mai averlo.
Quando si parla di questo tipo di viaggio trasformato in oggetto letterario siamo ovviamente lontani dalle ferie ferragostane attentamente pianificate da noialtri. A essere programmata e molto approssimativamente è solo la meta, distante dal punto di partenza settimane di solitudine, fatica fisica e incognite naturali, prima tra tutte ritrovarsi alla mercé di se stessi. Del tempo di mezzo tra partenza e arrivo, di ciò che si cerca si ha un’idea piuttosto azzardata, perché sotto il tenue velo dipinto dell’impresa sportiva e della fatica fisica si nasconde una verità che solo una prova tanto lunga, estenuante e pericolosa rivela.
La spina del lutto non a caso è conficcata in tutti questi viaggi femminili, romanzati ad uso del pubblico che forse non prova il medesimo, intenso bisogno di scomparire perché non ha questo corpo estraneo dentro o è già riuscito ad estrarlo. Via via che si abbandona la routine quotidiana e umana, quando il fornello da campo non si accende, la notte è fredda e tocca fidarsi degli sconosciuti incontrati sul cammino e sperare in bene, il viaggio diventa una cornice di esplorazione dentro se stessi, fino a vedere finalmente quel lutto di cui non si aveva consapevolezza. Toccare la spina ed estrarla, con dolore, dal proprio animo. Poi si raggiungerà anche la meta segnata sulla mappa, ma in realtà il traguardo di cui si era inconsapevoli, quello che originava il desiderio di fuga, è già raggiunto.
Il problema di Elyria è che la meta fisica non c’è, o meglio, è una scusa confusa e bizzarra. La meta è la sparizione stessa, lo svanire da un giorno all’altro, lasciando uno spazio vuoto nel suo appartamento newyorkese e nella vita di suo marito, senza un biglietto, una parola, un avvertimento.
Un gesto folle e illogico che in realtà è tale solo se vissuto dalla prospettiva del libro, ovvero quella all’interno della testa della protagonista, una donna la cui unica risolutezza è quella dimostrata nell’incrinare ogni situazione stabile, così colma di fragilità da sembrare una ragazzina, salvo però essere dotata di una volontà autodistruttiva di chi è già sopravvissuto a parecchi tentativi di annullamento . O forse è la negazione perenne che si porta dentro: le è stata negata una madre responsabile e affettuosa, una figura paterna, una sorella di sangue. Persino il significato del suo nome si rifà alla mancanza di un’esperienza:
Elyria era una città dell’Ohio in cui mia madre non era mai stata. Il mio nome non significava altro che questo: un posto non era mai stata.
Quando la sorellastra decide di percorrere l’unica strada la cui meta è la vera, definitiva sparizione, Elyria rimane inceppata in una routine quotidiana che sembra causata da questo trauma più esserne la cura. Pian piano ogni gesto quotidiano diventa l’imitazione di un’azione razionale compiuta da altri che a Elyria appare vuota di senso, grottesca, orrorifica. Da fuori il suo palese disagio mentale non è percepito (o forse si è circondata di chi non può farlo), da dentro s’intesse un intero romanzo in cui Elyria tenta di spiegare, di trovare una logica e un obiettivo in quella che è una rovinosa fuga verso il nulla, un viaggio sola andata verso la Nuova Zelanda, scelta sulla base di una promessa di cambiamento così risibile che appare avventata perfino alla protagonista.
E così Elyria si sposta di città in città, di passaggio in autostop in passaggio, allontanandosi da ogni parvenza di normalità non appena questa sembri ricondurla alla ragionevolezza. E qui dovrebbe arrivare la crisi, la rivelazione, la consapevolezza della spina, l’estrazione, la svolta. Oppure la sconfitta, la morte.
Nessuno scompare davvero però non è un grido d’aiuto di chi ha bisogno di rendersi conto di stare urlando, è un precipitare senza mai schiantarsi, alla ricerca di un annullamento che non c’è. Elyria è consapevole della sua spina e a tratti è vagamente cosciente di quanto influenzi le sue scelte, ma la sua realtà via via più allucinata e ferale non le consente nemmeno il lusso di desiderare di uscire dalla fuga senza fine in cui si sta adoperando. Elyria è bloccata nel mezzo: non riesce a tornare, a riapparire, ma non ha nemmeno la volontà o il coraggio di scomparire definitivamente come la sorellastra.
La domanda che sorge spontanea leggendo questo straniante libro è quanto ci sia di personale nell’esordio di Catherine Lacey oltre alle realistiche descrizioni di una Nuova Zelanda oltre la sua nomea di paradiso terrestre. Questo perché Nessuno Scompare Davvero è un libro su cui è difficile dare un parere, tanto è straniante e talvolta irritante essere calati così profondamente in comportamenti che sulle pagine della cronaca o nella vita di tutti i giorni risultano folli e incomprensibili. Dentro il romanzo, hanno una loro logica ed è forse questa la più grande forza della scrittura della Lacey, la capacità di restituire un quadro psicologico problematico dal suo interno, amoralmente, lapidariamente. Ancora più sottile è il suo lavoro sulla scrittura, che pare un flusso di coscienza finché non si nota come ci sia un ciclico, studiatissimo rincorrersi di immagini e richiami tra le pagine, tra i pensieri di Elyria.
In definitiva Nessuno scompare davvero è davvero il libro non banale che vi avevamo promesso, probabilmente uno degli esordi più bizzarri di quest’annata, su cui è difficilissimo formulare un giudizio su alcunché (la protagonista, la madre, il marito, gli incontri in Nuova Zelanda) proprio a causa della prospettiva del romanzo. Non è un libro per tutti e non è la migliore lettura sull’elaborazione del lutto di quest’anno (Io e Mabel rimane invece imperdibile), ma è un’esperienza di lettura che difficilmente vi capiterà di fare altrove.
Se volete saperne di più e non temete qualche anticipazione, vi consiglio vivamente la lettura di questa bellissima intervista pubblicata dalla casa editrice Sur. [Da parte mia invece vi segnalo quest’interessantissimo approfondimento sul design della cover del libro, realizzata da Charlotte Strick. NdR]
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